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Ipotermia terapeutica: già in fase preospedaliera?

Matteo Poggiali 11/11/2014
IPOTERMIA-TERAPEUTICA

Lance Becker, direttore del Center for Resuscitation Science della Penn University affermò:

“La morte cellulare non è un evento. E’ un processo. E un processo può essere interrotto”.

Il processo in questione, messo in moto nelle cellule neuronali, dipende da un lato dalla privazione di ossigeno, e dall’altro dal cosiddetto danno da riperfusione.

I ricercatori guidati da Becker lavorarono per anni per trovare il modo di interrompere questa sequenza, ma nessun approccio farmacologico aveva funzionato.

All’inizio degli anni novanta, Peter Safar, dell’Università di Pittsburgh, studiò a fondo, in modelli animali, le reazioni dell’organismo all’abbassamento della temperatura.

Vide innanzitutto che il raffreddamento doveva essere instaurato lentamente, per non evocare brividi, termogenesi e scariche di catecolamine e doveva essere contenuto entro limiti precisi, per non indurre aritmie , coagulopatia o infezioni .

Safar elaborò uno schema operativo per raffreddare il corpo a 33-36°C che sperimentò nel cane. La sua terapia ipotermica permetteva di superare un arresto circolatorio completo di 10-12 minuti, seguito da riperfusione: al termine del trattamento, il cervello funzionava normalmente e appariva perfetto all’esame istologico.

Oggi si sa che ogni riduzione di 1° grado della temperatura corporea rispetto a quello basale, rallenta il metabolismo di circa il 6-7 %. Questo permette di ridurre il fabbisogno di ossigeno al cervello e contemporaneamente ridurre i processi chimici alla base della morte cellulare.

E’ prova scientifica, che soggetti colpiti da arresto cardiaco in condizioni climatiche di bassa temperatura, possono essere rianimati anche dopo periodi prolungati di arresto, con sequele neurologiche lievi o addirittura assenti.

Numerosi studi sono stati condotti in tal senso, e gli Autori hanno dimostrato che abbassando la temperatura corporea del soggetto colpito da arresto cardiaco e rianimato, aumentano le possibilità di sopravvivere e condurre una vita senza sequele neurologiche.
Affinché l’ipotermia sia efficace nel prevenire il danno neurologico deve essere indotta il più precocemente possibile, al massimo entro 4 ore dall’arresto cardiaco.

Le linee guida AHA analogamente a quelle ERC ed ILCOR raccomandano l‘ipotermia terapeutica a 32-34°(riferita alla temperatura interna del corpo: core) per 12-24 ore in tutti i casi di arresto cardiaco secondario a FV/TV.
Esistono anche evidenze di casi in cui l’arresto cardiaco avvenuto con altri ritmi di presentazione (PEA, asistolia), trattati con ipotermia terapeutica precoce, iniziata fin dai primi istanti dall’arresto, abbiamo avuto follow-up favorevole.

Per l’applicabilità della tecnica sono necessari criteri di selezione:

  •  L’ACR deve essere testimoniato
  • Deve trattarsi di un ritmo defibrillabile
  • L’ACR deve essere di origine cardiaca
  • Non devono essere sottoposti ad ipotermia soggetti con patologie terminali
  • Deve essere previsto un range di inclusione in base all’età
  • Il ROSC  deve essere caratterizzato da un ritmo e da una emodinamica stabile

Numerosi protocolli sono stati introdotti per eseguire  l’induzione dell’ipotermia terapeutica, ma in linea generale si deve prevedere:

  • Infusione di liquidi freddi, impacchi freddi o sistemi di raffredamento
  • Sistemi di monitoraggio della temperatura corporea interna
  •  Narcosi e  miorisoluzione della vittima rianimata
  • Monitoraggio continuo dei parametri vitali
  • Controlli ematochimici seriati

Nella fase post-ipotermia:

  • Riscaldamento passivo in 8-12 ore fino a raggiungimento di 36° C di temperatura interna
  • Mantenimento della normotermia

Conclusioni:

bul10 Se gli studi eseguiti sull’ipotermia terapeutica in fase ospedaliera sono relativamente numerosi, non si può dire altrettanto su quelli eseguiti in fase preospedaliera.
bul10 La fattibilità del raffredamento precoce è ben documentata e alla luce delle attuali evidenze sembra sicuro avviare il raffreddamento già in fase preospedaliera, piuttosto che lasciare i pazienti senza un trattamento potenzialmente benefico in attesa di ulteriori studi di supporto.
bul10 In conclusione, nonostante il limitato numero di studi, sembra giustificabile attuare il raffreddamento preospedaliero anche in assenza di univoci elementi a sostegno di questa pratica.

 

Fonte: http://www.emergenzasanitaria.net
Le foto presenti sul sito sono state in larga parte reperite su Internet e quindi valutate di pubblico dominio. Se i soggetti o gli autori avessero qualcosa in contrario alla pubblicazione, non avranno che da segnalarlo all’indirizzo e-mail admin@soccorritori.ch, lo Staff provvederà prontamente alla rimozione delle immagini utilizzate.

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