In prima linea nella lotta contro un patogeno invisibile: la testimonianza di una soccorritrice diplomata che racconta paure e ansie che circondano chi lavora a contatto con ammalati e infetti
Nella guerra contro il coronavirus, al «fronte» ci sono i sanitari: soccorritori, infermieri, medici, personale di cura e tanti altri. Persone la cui vita, nelle ultime settimane, ha subìto un drastico cambiamento. Uno scorcio su questo mutamento, per capire come vive chi lotta per noi in prima linea contro questa minaccia invisibile, ce lo offre Diana (nome di fantasia, l’identità è nota alla redazione), una soccorritrice diplomata attiva in un servizio di ambulanze ticinese, che ha voluto condividere con noi pensieri e preoccupazioni di chi non può restare a casa, perché l’emergenza chiama. «Fuori servizio mi sento in colpa perché non sto aiutando. Al lavoro vorrei essere a casa perché è sempre devastante. Non per quello che vedi o provi, ma per le paure e le ansie che ti circondano», racconta.
Non posso più fare il mio lavoro come prima
Dubbi e domande
Il primo dubbio sorge mentre i soccorritori si recano da un paziente: «Sarà “covid positivo”?». Non avendo certezze, ci si attrezza: «Dobbiamo bardarci con camice, occhiali, guanti a polso lungo su ogni intervento, indipendentemente dalla gravità. Se si prospettano manovre invasive, indossiamo camice impermeabile e mascherina FFP2, con cui si respira a fatica e che trattiene di più il caldo», prosegue. «Mi sono vestita bene?», «Ho allacciato bene il camice?», «Le maniche resteranno all’interno del guanto? Anzi mettiamone due di guanti per sicurezza: se ne sporco uno ne ho già uno pulito sotto e potrò svestirmi più serenamente dopo». I dubbi sono molti. A casa del paziente inizia il lavoro: «Si valuta il quadro clinico, si decide cosa fare e, soprattutto, si indaga per verificare se vi è il rischio che sia un “covid”. “Ha temperatura?”, “Ha preso farmaci antipiretici nelle scorse ore?”, “Ha tosse o mal di gola?”, “È stato a contatto con un affermato caso di covid?”, “Ha fatto un tampone? Ne conosce l’esito?”». Un altro quesito alla nostra soccorritrice sorge spontaneo:
Ho chiesto tutto? Mi starà dicendo la verità?
E il pensiero di Diana va anche alla persona a cui servono le sue cure: «Siamo bardati e siamo entrati a casa sua come se fosse un appestato, ma magari è solo caduto dalle scale e non riesce ad alzarsi da solo».
C’è anche la possibilità di dover soccorrere un «covid» accertato, che mostra segni di peggioramento. «Facciamo il possibile per aiutarlo, pur consapevoli che non possiamo fare tutto: “Solo lo stretto necessario”, hanno spiegato. Ma cos’è precisamente lo stretto necessario?». Se poi la valutazione clinica suggerisce un’ospedalizzazione, i soccorritori devono preparare il paziente. «I suoi familiari saranno lontani», valuta Diana. «Devo aiutarlo a fare la valigia: lui mi spiega dove sono le cose e io frugo in cassetti, armadi o in bagno. Io, ovvero una persona che il paziente non ha mai visto prima e che non vede nemmeno ora per via del viso coperto dai presidi di protezione».
In ambulanza, poi, lo spazio è esiguo: difficile tenere le distanze raccomandate. Il paziente, che già respira a fatica, deve indossare la mascherina. All’ospedale, la prima vista è sulle tendine della Protezione civile, poi il paziente viene accompagnato in reparto: «C’è un apposito percorso. Chi ci vede in corridoio, così bardati con un paziente, si sposta, quasi scappa». Quando il paziente è preso in carico dagli infermieri, a loro volta muniti di protezioni, è il momento dei saluti, da lontano: «Prima molti mi stringevano la mano, alcuni volevano darmi un bacino sulla guancia. Non è più possibile. E probabilmente il paziente, una volta dimesso, non mi riconoscerebbe nemmeno».
Disinfettare tutto
Bisogna poi togliersi di dosso tutto: «Devo concentrarmi, perché sono “sporca”. Una cosa alla volta, tutto senza toccarmi il viso, finché non mi disinfetto anche le mani. Quando mi sono levata ogni protezione sono “pulita”, stanca, assetata, sudata e accaldata». Non è finita: anche l’ambulanza è da pulire. Di nuovo bardati, i soccorritori, fuori servizio disinfettano tutto: «Sanifichiamo, nebulizziamo, ci rispogliamo, annotiamo la sanificazione e si passa alla prossima ambulanza. È una guerra senza armi. E domani? Non sarà uguale ad oggi, ma con nuove direttive, procedure, pazienti, colleghi, soldati che forse non parlano italiano e non conoscono le strade. Per ora. Poi le conosceranno bene, almeno quelle da ospedali a ospedali, da cliniche a cliniche».
Fonte: https://www.cdt.ch |
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